biografia

Alla notizia dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati, resa pubblica l’8 settembre 1943, Saverio ha vent’anni e una gran voglia «di fare qualcosa». In breve Milano (dove è rientrato con la famiglia) è occupata dai tedeschi: «intorno a noi si era fatto il deserto. Tutti quelli che potevano scappare, andavano a rifugiarsi in campagna o al Sud». Anche la famiglia Tutino organizza un rifugio fuori città per i figli. Dopo pochi giorni passa il confine svizzero: prima al campo di smistamento di Gudo (Locarno) e poi (alla fine di settembre 1943) raggiunge Lugano. Qui Saverio entra in contatto con vari esponenti dell’antifascismo italiano. Compie la sua scelta politica: entra nel Partito comunista.

«È ancora salvo l’animo buono, il desiderio di bene? Penso di sì, anzi sono certo di sì, quando vedo il popolo, tutto questo popolo, amarci come unici figli, amarci dolorosamente – nel sangue – e appassionatamente. Tuttavia una fine di tutto questo, un definitivo: basta! alle mille furie scatenate, di tutte le specie – quando verrà sarà davvero, un vivo avvento di pace».

Il 25 aprile, sfilando nei paesi liberati vicino Biella, quelle popolazioni evocate «ci applaudono, ci buttano addosso i fiori. La gente ride, acclama, grida è pronta allo scatto finale di entusiasmo. Noi versiamo qualche lagrima di commozione». Ancora qualche giorno di combattimento e il 3 maggio entra a Ivrea: «Abbracci, festa».

Si concludeva così, con l’esperienza partigiana, «la prima delle sue vite», come ha scritto la figlia Barbara, per dare inizio alla seconda di giornalista, scrittore, «curioso» intellettuale, viaggiatore, conoscitore di diversi paesi e di popolazioni, un vero e proprio giramondo, sempre fornito delle sue agendine, perché Saverio ha scritto diari sempre, una pagina al giorno, come ha ricordato nella sua «autobiografia». Da pochi mesi alla redazione de «l’Unità» di Roma, nell’estate del 1950, Enrico Berlinguer gli propone di aggregarsi come giornalista a una delegazione della Federazione giovanile comunista che si sarebbe recata in Cina in occasione del primo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare. Nel 1958, tornato a «l’Unità», viene inviato come corrispondente dalla Francia («mia seconda patria»), per Saverio è tornare ai suoi anni adolescenziali quando la famiglia Tutino si era trasferita a Parigi per il lavoro del padre. Torna in un periodo tra i più difficili nella storia francese, la questione algerina è il tema centrale. 

È nuovamente a Roma quando scoppia «un evento che sembrava potesse avere conseguenze apocalittiche: la crisi dei missili di Cuba». Quando fu annunciato il blocco all’isola da parte di Kennedy, «l’Unità» decise di mandarlo quale inviato speciale. È una svolta importante nella «seconda vita». Saverio rimarrà fino alla fine del 1968 e da «giornalista militante» farà conoscere ai lettori italiani Cuba, la sua storia, i suoi cambiamenti.

Gli anni Settanta si presentano per Saverio complessi e difficili, soprattutto sul piano politico avvertiva di essere un «diverso», un «marziano», in quanto, da una parte, vedeva scemare l’entusiasmo per la realtà cubana, dall’altra il Partito comunista italiano gli chiedeva di fare «un’autocritica». Non mancarono di avvicinarlo le Brigate rosse, attraverso «operatori clandestini dei quali non ho mai saputo il vero nome», alcuni con «l’aria di cospiratori così esplicita da indurre alla prudenza»; Saverio pensò bene di prospettare diversivi «per togliermeli di torno». Un amico degli anni liceali a Milano, Oreste Del Buono, scrittore, critico letterario, intellettuale tra i più prolifici e tra i meno etichettabili, divenuto direttore del mensile «Linus», gli propone di collaborare con articoli «sui grandi avvenimenti di politica estera, visti con un occhio non conformista». Accettando la collaborazione, Saverio offre «una carrellata di avvenimenti ripresi in una chiave insolita». Verso la fine del 1975 «qualcuno mi avvertì che stava per nascere un nuovo giornale, diretto da Eugenio Scalfari». Mercoledì 14 gennaio 1976 nelle edicole esce il primo numero de «la Repubblica». Continuava a occuparsi di America Latina e, soprattutto, riprendeva a viaggiare arrivando sui luoghi caldi degli eventi. Compie qualche viaggio nella Spagna del dopoFranco, ma soprattutto l’America Latina e i suoi continui sommovimenti continuano ad attrarlo. Nel luglio 1979 è in Nicaragua dove la guerriglia sandinista ha conquistato il potere; nel marzo del 1980 corre a Bogotà, dove una trentina di guerriglieri hanno sequestrato diciotto ambasciatori e il nunzio apostolico. Torna in Argentina, nell’aprile 1982, in seguito alla Guerra de las Malvinas (o Falklands War) contro il Regno Unito. Raggiunge l’Uruguay e, «mentre tentavo di capire come si sarebbe trasformato il potere dei militari», Saverio si sente male. Tre mesi dopo in una clinica vicino Ginevra, con un’operazione durata dieci ore gli «avevano sostituito quattro passaggi delle coronarie con altrettanti pezzi della vena safena tolta dalla gamba destra. Quattro bypass». Il giornalista «giramondo» deve fermarsi a Roma, nell’appartamento in Trastevere. Mentre inizia la convalescenza viene convocato al Palazzo di giustizia dal giudice Rosario Priore (sta preparando il Moro ter), il quale lo informa che nel giugno 1981 le Brigate rosse avevano deciso di ucciderlo.

Dopo essere sfuggito a vari scontri a fuoco in diversi paesi dell’America Latina, essere venuto a conoscenza di aver evitato una esecuzione brigatista, aver superato una difficile operazione al cuore, Saverio Tutino, da poco sessantenne, cambia vita. Riprende un «contatto vitale» con le due figlie e, soprattutto, nel settembre 1984, incontra Gloria Argelés, una scultrice argentina che abitava a Roma.

Inizia a soggiornare nella provincia aretina, Saverio trova «luoghi adatti al mio carattere e anche alla mia età»; boschi, cervi, daini, caprioli, funghi e tartufi. Decide di lasciare il giornalismo come attività principale, decide di non «ritornare sul sentiero di guerra». Il rapporto con la provincia, la sempre maggiore attenzione per l’individuo, per la soggettività, lo spingono «a essere meno parsimonioso negli affetti», ma la sua filosofia del fare lo caratterizza ancora e lo conduce nell’Alta Valle del Tevere a inventare e fondare l’Archivio dei diari.

Niente mi è sembrato più vicino a quanto avevo fatto in tutta la mia vita (“balilla”, partigiano, giornalista militante nel comunismo internazionale), che andare verso la vita degli altri non più per offrire futuri paradisi collettivi, ma per consolidare l’identità individuale presente. Creare un archivio della memoria personale come gesto quasi riparatore, per offrire pari opportunità a tutti quelli che vogliono raccontare solo un pezzo della propria vita, giorno per giorno, oppure nella ricostruzione di un’epoca intera.

Tratto da C. Brezzi, “La forza delle memorie”, Il Mulino 2022